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Fantasmi dello tsunami, Richard Lloyd Parry

Giappone

Mi trovo ad ospitare qui, nuovamente, qualche pensiero a proposito di un libro pubblicato da una casa editrice che apprezzo molto: Exorma. Il libro è Fantasmi dello tsunami – Nell’antica regione del Tohoku, di Richard Lloyd Parry.

Fantasmi dello tsunami

L’11 marzo 2011 lo ricordiamo un po’ tutti, per un terremoto che ha spostato l’asse terrestre e avvicinato il Giappone all’America di ben 4 metri. Ce lo ricordiamo, questo evento, perché ancora una volta si è sentito parlare di disastro nucleare.

Alle ore 14:46 di quel giorno, le coste di Honshū, la maggiore isola del Giappone, furono scosse da uno dei terremoti più intensi mai registrati nella storia della sismologia. Parry, nel suo libro, lo dice subito: il problema non fu il terremoto in sé. Tokyo sembrava leggermente scossa, come se non fosse accaduto nulla di così eclatante. Il problema fu quel che accadde dopo. La vera catastrofe – disastro nucleare di Fukushima a parte – fu lo tsunami.

Nel Nord Est del Giappone c’è una regione, il Tohoku, un luogo remoto per i giapponesi delle metropoli. Storicamente terra abitata da gente considerata rozza, con una lingua incomprensibile, fredda e un po’ primitiva, il Tohoku fu una delle aree più colpite dallo tsunami che seguì alla scossa di terremoto – quella roba da niente di magnitudo 9.1*.

Fantasmi dello tsunami, Richard Lloyd Parry

Fantasmi dello tsunami non si riferisce al fenomeno dello tsunami del 2011 nel suo complesso (18000 vittime), ma si concentra su quanto accaduto alla scuola di Okawa, a Ishinomaki. Qui, in un villaggio poco distante dalla costa, lo tsunami ingrossò il fiume Kitakami e travolse le case, gli edifici pubblici e pure la scuola elementare. Per quel che riguarda quest’ultima, morirono 74 alunni e 10 insegnanti, ma mai nessuno è riuscito a spiegare perché non si misero in salvo.

Richard Lloyd Parry, corrispondente del The Times per l’Asia, ha studiato il caso e raccolto le testimonianze delle famiglie sopravvissute alla catastrofe, dei genitori degli alunni di Okawa che non ce l’hanno fatta. Ne è venuto fuori un racconto che non è fiction, per ovvie ragioni, e non è puramente un report giornalistico.

Fantasmi dello tsunami è di certo atipico. Ci si confronta con il dolore della perdita, con il senso di indignazione generato dalla mancanza di risposte e con la caparbietà di chi non vuole arrendersi né all’assenza dei propri cari né a chi non sa rispondere ai perché. In un certo senso, il libro racconta una ricerca mai andata a buon fine: cosa è successo alla scuola di Okawa?

Tutto il mondo è paese

Fantasmi dello tsunami è stato un libro che ho letto con estrema lentezza. Non è stata colpa del libro, ma responsabilità mia. L’ho trovato stimolante, sotto molti aspetti, ma ho fatto fatica a calarmi nel dolore altrui, occupata (come lo sono ancora) a gestire il mio. Insomma, ho impiegato mesi per terminare una lettura che, attraverso il racconto della catastrofe e di ciò che è avvenuto dopo, ha permesso di inoltrarmi in quel territorio che definisco la vera alterità: il modo di fare, agire e reagire dei giapponesi. Secondo la mia percezione, il Giappone è il vero mondo altro.

Ma il bello di letture come questa è che sanno come spiazzarti, perché ti fanno trovare il simile nel dissimile. Vale comunque la pena confessare: ho pensato, molte volte, che se una catastrofe come quella del 2011 si fosse abbattuta sull’Italia, io non starei scrivendo e tu non mi staresti leggendo. Saremmo andati a picco, tutti.

Detto questo, gli esperti dicono che entro il 2042 c’è un’alta probabilità che un terremoto, più violento di quello del 2011, possa radere al suolo la città di Tokyo. Eppure, vivono tutti in tranquillità. Del resto, sono piuttosto tranquilla anche io (e con tutti i disagi di una delle peggiori città italiane in cui vivere): adagiata con grazia sui Campi Flegrei, con il Vesuvio alla mia sinistra, mentre ovviamente guardo il mare. Pare, quindi, che avere le terga nelle caldere o sulle faglie non ci faccia né caldo né freddo. Da qui, probabilmente, discende il nostro approccio alla vita: controllato con exploit di perversione a Est, fuori controllo e spontaneo a Ovest.

Il fotografo Daniel Berehulak ha scattato una foto presso il luogo della tragedia di Okawa. Puoi vederla su Il Post.

Ad ogni modo, di fronte alla morte siamo tutti uguali e non ci piove. Ma come sono i giapponesi dopo una catastrofe? Ed è qui che è interessante ciò che riporta Parry: i genitori dei bambini della Okawa e tutti gli abitanti del villaggio si diedero subito da fare per aiutare gli sfollati, per ritrovare i dispersi, recuperare i cadaveri. L’hanno fatto con tutto l’autocontrollo, la compostezza e l’efficienza giapponesi.

Purtroppo, però, la macchina s’era inceppata e qualcosa nel piano di evacuazione della scuola non era andato come avrebbe dovuto. E ho scoperto due cose: il Giappone è in crisi politica da tempo e i giapponesi non sanno scegliere leader politici (ricorda qualcosa?) e, soprattutto, non amano intentare cause legali, soprattutto contro le amministrazioni, perché sanno di perdere (quasi sempre) a tavolino e dopo lunghissime attese – anche lì, i tempi giudiziari sono biblici.

In sintesi, i giapponesi hanno poca fiducia nelle personalità politiche, ma, a differenza nostra, non si aggrappano a un nulla pur di citare gente in giudizio. Un po’ torna: a noi pare tutto perfetto, in Giappone, quindi di cosa dovrebbero lamentarsi. Eppure no, qualcosa non va. E, come già detto, qualcosa di strano è accaduto anche a Ishinomaki.

Il caso della scuola di Okawa è stato particolare, un’eccezione e Parry, un non giapponese, lo dice: era ora che almeno un gruppo di giapponesi si adirasse, si indignasse, alzasse la voce.

Era ora che si adirassero, si indignassero, che alzassero la voce! Ma basta con tutta questa compostezza, ché con le buone maniere (bisogna ammetterlo) ogni tanto si ottiene pure qualcosa – non i morti indietro: ci ho provato e assicuro che non funziona.

Tutto il mondo è paese: i fantasmi ci perseguitano, (per qualcuno) la religione è un balsamo. Se deciderai di leggere questo libro, forse comprenderai meglio anche la devozione napoletana per i morti, la nostra antica simpatia per il mondo dell’aldilà, e ti sembrerà meno ridicola.

Davanti alla morte non resta che l’accettazione, ma è umano chiedersi il perché delle cose, è umano voler mettere insieme i pezzi del puzzle, è umano aspettarsi che qualcuno si assuma la responsabilità di un tragico errore. In altre parole, dopo un disastro siamo tutti grossomodo gli stessi, in ogni angolo di globo. È bello che questo venga ricordato, ogni tanto. A presto,

Bruna Athena

*faccio sommessamente notare che il terremoto dell’Irpinia (1980) fu “solo” di magnitudo 6.9

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